Contro l'ora di matematica (Rizzoli) è il provocatorio titolo italiano di
A Mathematician's Lament, breve saggio del matematico e insegnante statunitense Paul Lockart sull'insegnamento della matematica a livello pre-accademico, una cui versione preliminare era già apparsa (
qui) sulla popolare rubrica online di Keith Devlin (una traduzione italiana è disponibile
qui, presso Xla Tangente).
L'opera è divisa in due parti,
Lamentazione e
Giubilo. La prima, forse un po' banale e ridondante nei contenuti, fornisce un elenco di quelli che, a detta dell'autore, rappresentano i principali problemi della scuola (o, meglio, dei programmi statunitensi di insegnamento della matematica). Il suo punto di vista è quello dell'
esteta: a detta di Lockart (che in questo concorda col sommo
Hardy) la matematica va insegnata solo in quanto espressione artistica, frutto di un lavoro creativo non differente dalla pittura o dalla musica, trascurandone quando possibile gli aspetti formali e lasciando libero sfogo alle intuizioni dello studente. Pur trovandomi d'accordo sul fatto che la
bella matematica raggiunga le più alte vette creative dell'espressione umana trovo le argomentazioni espresse nel libro tutt'altro che convincenti:
- a differenza della musica o delle arti figurative, la matematica ha un solo livello di fruizione: l'ascolto del Canone di Pachelbel non richiede competenze di teoria musicale, ma ben difficilmente chi è totalmente digiuno di matematica potrà apprezzare il metodo della diagonale di Cantor o la celebre dimostrazione di Euclide sui numeri primi (per non parlare dei trionfi di Wiles o di Perelman);
- mettendo in pratica i suoi principi, Lockhart impone il suo punto di vista sulla matematica; pur amandone a mia volta gli aspetti estetici, storici e filosofici (e facendone uso nell'insegnamento) non posso però trascurarne gli aspetti più pragmatici: io so che senza nozioni formali di calcolo infinitesimale i miei attuali studenti al Politecnico si troveranno in grosse difficoltà. Su una cosa, però, concordo con lui: spesso è inutile cercare a tutti i costi applicazioni pratiche della materia insegnata. La matematica banale ha, in genere, soltanto applicazioni banali (e quindi noiose).
Il testo è condito da alcune conversazioni tra gli immaginari Salviati (alter-ego dell'autore) e Simplicio, prelevati direttamente dal
Dialogo di Galileo Galilei.
Nella seconda parte del libro, che mi ha maggiormente convinto, l'autore tenta poi di spiegare la sua visione dell'estetica matematica, fornendo alcuni esempi in cui l'intuizione prevale sugli aspetti formali. Si tratta senz'altro di esempi significativi, stimolanti e non banali. Si scaglia inoltre contro la didattica della matematica (che definisce "assurda tragedia"); pur non condividendone le posizioni estreme, sono a mia volta convinto che all'insegnante debba essere lasciata assoluta libertà espressiva nel condurre le lezioni, a scapito di modelli preconfezionati.
Concludendo: lo sfogo di Lockhart non è, a mio avviso, un capolavoro di divulgazione, ma fornisce comunque parecchi spunti di riflessione a proposito dei temi centrali dell'insegnamento della matematica. Non mi sono quindi pentito di averlo letto.