There's no permanent place in the world for ugly mathematics. Ossia, al mondo non c'è un posto permanente per la brutta matematica. Si tratta di una delle frasi più celebri del saggio di G. H. Hardy A mathematician's apology (pubblicato in italiano da Garzanti con il titolo Apologia di un matematico), che ho recentemente riletto con maggiore cognizione di causa dopo aver approfondito la figura del suo autore (qui e, parzialmente, qui).
Scritto nel 1940, quando Hardy si era ormai reso conto di essersi lasciato alle spalle il suo periodo produttivo, il libro rappresenta un tentativo di giustificare i motivi che possono condurre a dedicare la propria vita alla matematica. Si tratta di un'opera affascinante, nella quale il far matematica viene descritto come un processo soprattutto creativo e l'importanza della matematica viene giudicata con criteri estetici. Hardy accosta in modo affascinante arti figurative, musica e matematica: il pittore crea la bellezza accostando i colori, il musicista accostando i suoni e il matematico accostando le idee. Già, idee, e non formule, equazioni o simboli. Per Hardy, quindi, la matematica è interessante quando è bella.
Purtroppo, però, Hardy si mostra un po' troppo ottimista: anche il fruitore occasionale può facilmente cogliere la bellezza in un dipinto o in una sinfonia, ma senza aver istruito adeguatamente l'occhio (o l'orecchio) della mente ben difficilmente saprà apprezzare l'eleganza di una dimostrazione. Il libro contiene solo due esempi (celeberrimi) di "belle dimostrazioni": l'irrazionalità della radice di 2 e l'infinità dei numeri primi, guarda caso proprio quelle che, all'inizio del primo anno di Liceo, vengono somministrate agli studenti (i quali, purtroppo, non ci trovano niente di affascinante; tuttalpiù le studiano a memoria sperando di far bella figura...).
Per Hardy esiste una matematica "banale" (quella che viene studiata nei corsi scolastici e universitari) e una matematica "vera", che viene approfondita proprio perché bella. Afferma inoltre che la matematica "vera" non potrebbe mai avere applicazioni nefaste, ad esempio in ambito bellico. Qui si rivela però un cattivo profeta: oggi il suo campo di studi prediletto, la teoria dei numeri, viene sfruttata intensamente in crittologia, disciplina legata a doppio filo alle applicazioni militari.
Il libro, per lo meno nell'edizione della Cambridge University Press, è preceduto da una lunga introduzione biografica del romanziere C. P. Snow, che è stato vicino ad Hardy negli ultimi anni della sua vita e che ci permette quindi di farci un'idea precisa degllo stato d'animo in cui il matematico si trovava al momento in cui l'opera è stata redatta.
Purtroppo, però, Hardy si mostra un po' troppo ottimista: anche il fruitore occasionale può facilmente cogliere la bellezza in un dipinto o in una sinfonia, ma senza aver istruito adeguatamente l'occhio (o l'orecchio) della mente ben difficilmente saprà apprezzare l'eleganza di una dimostrazione. Il libro contiene solo due esempi (celeberrimi) di "belle dimostrazioni": l'irrazionalità della radice di 2 e l'infinità dei numeri primi, guarda caso proprio quelle che, all'inizio del primo anno di Liceo, vengono somministrate agli studenti (i quali, purtroppo, non ci trovano niente di affascinante; tuttalpiù le studiano a memoria sperando di far bella figura...).
Per Hardy esiste una matematica "banale" (quella che viene studiata nei corsi scolastici e universitari) e una matematica "vera", che viene approfondita proprio perché bella. Afferma inoltre che la matematica "vera" non potrebbe mai avere applicazioni nefaste, ad esempio in ambito bellico. Qui si rivela però un cattivo profeta: oggi il suo campo di studi prediletto, la teoria dei numeri, viene sfruttata intensamente in crittologia, disciplina legata a doppio filo alle applicazioni militari.
Il libro, per lo meno nell'edizione della Cambridge University Press, è preceduto da una lunga introduzione biografica del romanziere C. P. Snow, che è stato vicino ad Hardy negli ultimi anni della sua vita e che ci permette quindi di farci un'idea precisa degllo stato d'animo in cui il matematico si trovava al momento in cui l'opera è stata redatta.