venerdì 9 febbraio 2018

Chissà cosa si erano detti?

Già, chissà cosa si erano detti, Bohr e Heisenberg, in quel giorno di settembre del 1939, quando quest'ultimo, esponente di punta della fisica nucleare tedesca, si era recato in visita dal suo vecchio mentore in una Copenhagen occupata dai nazisti. Nessuno lo saprà mai veramente, ma da quel giorno i rapporti tra i due si incrinarono definitivamente. È il tema portante della pièce Copenhagen, di Michael Frayn, magistralmente interpretata negli scorsi giorni sul palco del LAC di Lugano e del Teatro di Locarno da Umberto Orsini (Bohr), Massimo Popolizio (Heisenberg) e Giuliana Lojodice (Margarethe Bohr) (io l'ho vista sabato sera a Lugano, in una sala purtroppo non gremitissima). La trama è presto riassunta: all'interno di una sorta di aula universitaria, dalle pareti ricoperte di formule matematiche, in un luogo senza tempo, gli spiriti dei tre rievocano il fatidico incontro, rivivendolo e reinterpretandolo in più modi, confrontando i rispettivi punti di vista e, nel caso di Heisenberg, cercando di giustificarsi per le scelte fatte di fronte al "papa" della fisica teorica, cercandone disperatamente l'approvazione. Frayn appare forse un po' troppo indulgente nei confronti del tedesco, anche alla luce di rivelazioni emerse proprio in seguito al dibattito riaccesosi grazie al successo della pièce, in particolare contenute nelle bozze di una lettera di Bohr destinata a Heisenberg, mai spedita, che smentiva le voci secondo cui Heisenberg avrebbe volutamente rallentato il programma nucleare tedesco. Tra i due, sarebbe poi stato il danese a contribuire in modo determinante allo sviluppo definitivo dell'arma atomica, in seguito alla sua fuga dalla Danimarca occupata e alla sua adesione al progetto Manhattan.